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Moda italiana, ecoage e green era. Ecco anche perché Milano conta

Moda italiana e significati d’essere. Ne hanno parlato in molti. E, nonostante i dati dovrebbero essere in grado di parlare più delle congetture, sembra ancora possibile attribuire molti livelli di significazione. La cara Vanessa Friedman, una delle voci più autorevoli del New York Times, si è, per esempio, domandata pubblicamente, se una settimana della moda a Milano avesse ancora senso.

Does Milan matter?

Così intitola il suo pezzo uscito proprio alla fine dei sei giorni italiani. Non ha paura di risultare scortese o eccessivamente tranchant. Per i critici americani, attacco e offesa non hanno bisogno di galateo. Il motivo? Secondo lei, i creativi nostrani mancano di innovazione, inventiva e creatività. Beh, devo dire che se queste affermazioni non avrebbero destato scalpore qualche anno fa, ora risuonano un tantino infondate. Un mix di insensatezza e superficialità dettato da chissà quale motivazione.

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Moda italiana: ecco la risposta a Vanessa Friedman

Al di là delle risposte risentite e impulsive del più mediatico tra i due  Dolce & Gabbana, ci sono motivi più oggettivi per rigettare tali dichiarazioni. Il primo e a mio avviso più fondato, è quello di Livia Firth.  Fondatrice e direttrice creativa di Ecoage. Ente organizzatore, insieme alla camera della moda di Milano, dei Green Carpets award.

Una moda sostenibile. Dal primo all’ultimo anello della catena. Questo è il punto. Affermare che Milano non ha senso di esistere quando, proprio l’Italia con Milano, è stata la prima a sostenere e favorire una maggiore sensibilità su questi temi è come ignorare il futuro e il progresso.

Don’t wear what everyone else is wearing, fast fashion doesn’t go anyway […] be an active citizen choose ethical fashion and build your sustainable wardrobe.

Il punto, forse, non è più solo creare bei vestiti. Abiti usa e getta che verranno ricopiati, con più o meno successo, dai marchi del fast fashion. Declinare tendenze e sperare di sfornare il tormentone. Vogliamo vedere nuovi mondi creativi. Senz’altro. Necessitiamo, però, che tali mondi non siano solo apparenza.

Sarebbe un caso che le collezioni più fortunate, recentemente, sono quelle che portano alla base slogan, rivoluzioni e ideali da sviscerare?

Il tema è più costruire una coscienza. Dietro, con e insieme agli abiti. Certo è difficile chiedere coerenza a un mondo in continua evoluzione e cambiamento, per definizione. Doveroso, però,  pretendere sensibilità e non accettare critiche gratuite.

La risposta italiana all’assenza di novità nella Moda italiana

Le novità nel panorama italiano ci sono state. Sono nuovi direttore creativi. Talenti emeregenti e anche tentativi di spettacolarizzazione del passato come nel tributo Versace.

Passi avanti continuano ad esserci.

Come quelli del mondo Gucci. Sia dal punto di vista del direttore creativo Alessandro Michele, che assimila rielabora e rigurgita tutto il suo mondo visivo, culturale, creativo. Sia dell’impegno sostenibile, proclamato nei giorni scorsi dal ceo Marco Bizzarri.

We are going fur free

Culture of porpuse, putting positive enviromental and social impact at the very heart of the brand.

Dimenticare o ignorare tutto questo, cara Vanessa, nel 2017 non è sostenibile. E anche molto imparziale.

Mi dispiace.

 

 

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